L’estensione del catalogo dei reati presupposto 231 alla fattispecie di dichiarazione fraudolenta ad opera del D.L. 124/2019 induce le società a confrontarsi con il sistema di gestione del rischio fiscale al fine di evitare sanzioni pecuniarie o perfino interdittive. A ciò si aggiunga che l’imminente attuazione della c.d. Direttiva PIF estenderà ulteriormente la responsabilità 231 circa la materia penal-tributaria. Tali direttrici normative suggeriscono l’adeguamento dei modelli attraverso l’introduzione o l’implementazione di un sistema di gestione del rischio fiscale che ponga al riparo l’azienda da condotte potenzialmente idonee ad integrare i delitti dichiarativi e il coinvolgimento della società, tra le altre, nelle c.d. frodi IVA. Sempre di più ormai la giurisprudenza penale qualifica l’impresa non tanto come fatto interamente privato, bensì come primo presidio di legalità dell’attività sociale ed offre alcuni criteri attraverso cui poter orientare il giudizio circa la buona fede (o meno) del soggetto coinvolto nella frode. In questo senso, costituiscono indici sintomatici (i) la struttura e una dotazione di personale che possano essere ritenuti adeguati alla prestazione effettuata (ii) l’esiguità del prezzo praticato rispetto a quello corrente e (iii) la mancata verifica del ruolo ricoperto dalla persona fisica con cui si tratta, (iv) adeguati poteri con l’interlocutore commerciale (v) la verifica della provenienza e corrispondenza del conto corrente con il fornitore/cliente. L’adozione di un adeguato sistema di gestione del rischio fiscale appare necessario anche per il legale rappresentante. Alla luce dell’inasprimento delle pene edittali, esso costituisce uno strumento rilevante per proteggere colui che sottoscrive “a sua insaputa” le dichiarazioni fiscali e, in caso di dichiarazione fraudolenta, poterne dimostrarne l’estraneità.