Il caso riguarda un infortunio sul lavoro per il quale sono stati chiamati a rispondere dinnanzi all’autorità giudiziaria sia il datore di lavoro sia la società, entrambi condannati dal Tribunale di Vicenza, in primo grado, e dalla Corte d’appello di Venezia, in secondo grado. La Corte di Cassazione, pronunciatasi con la sentenza n. 18413 del 10 maggio 2022 sul ricorso avanzato dal legale rappresentante dell’ente, ha evidenziato sin dal principio delle sue motivazioni l’ambiguità e lacunosità del capo di imputazione formulato nei confronti della società, in base al quale il fatto ad essa ascritto era quello di “avere “reso possibile” il verificarsi del detto reato, in quanto commesso nel suo interesse, stante l'assenza di un modello organizzativo avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro, ed in particolare l'assenza di un organo di vigilanza preposto alla verifica dei sistemi di sicurezza delle macchine operatrici” con le quali si era verificato l’infortunio. Secondo la Corte, infatti, l’addebito così formulato non avrebbe consentito di individuare il concreto profilo di responsabilità attribuibile alla società in quanto la mancanza del modello organizzativo non implica, di per sé, l’automatico addebito della responsabilità dell’ente. Infatti, ha continuato la Cassazione richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, “la mancata adozione e l'inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente al Dlgs. n. 231 del 2001, artt. 6 e 7, e al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 30, non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell'illecito dell'ente ma integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, la quale va però specificamente provata dall'accusa, mentre l'ente può dare dimostrazione della assenza di tale colpa”. Pertanto, l’assenza del modello (o la sua inidoneità/inefficacia) non sono di per sé elementi costitutivi della responsabilità dell’ente, che invece vanno individuati nella relazione organica e teleologica tra la persona fisica responsabile del reato presupposto e la società, la colpa di organizzazione, il reato presupposto e il nesso causale tra gli ultimi due. Tali considerazioni hanno indotto la Corte ad esprimere forti perplessità, in primo luogo, sul capo d’imputazione formulato dall’accusa “nel quale, in buona sostanza, ci si limita ad addebitare all'ente la mera assenza di un modello organizzativo, senza specificare in positivo in cosa sarebbe consistita la "colpa di organizzazione" da cui sarebbe derivato il reato presupposto, che è cosa diversa dalla colpa riconducibile ai soggetti apicali autori del reato”. Le medesime censure sono state mosse anche ai giudici di merito, che nelle motivazioni della sentenza impugnata non hanno saputo colmare le lacune argomentative causate dalla carente e ambigua formulazione dell’editto accusatorio, offrendo un percorso argomentativo non convincente in punto di responsabilità dell’ente. I giudici di merito, infatti, hanno fondato la responsabilità dell’ente sulla "accertata mancanza del modello organizzativo" e sul conseguente "risparmio di spesa quale tempo lavorativo da dedicare alla sua predisposizione ed attuazione", richiamando, genericamente, ulteriori voci di (possibile) risparmio di spesa. Inoltre, in base ai motivi della decisione della Corte d’Appello, l'affermazione della responsabilità dell'ente sarebbe derivata dalla sola dimostrazione della sussistenza del reato presupposto e del rapporto di immedesimazione organica dell'agente; il tutto, fra l'altro, attribuendo all'organismo di vigilanza compiti incardinati nel sistema di gestione della sicurezza del tutto estranei ai compiti che l'art. 6 del D.Lgs. n. 231 del 2001 assegna a tale organismo. La decisione della Cassazione è stata dunque di annullare con rinvio la sentenza impugnata.