La cancellazione della società dal registro delle imprese equivale alla morte del reo, determinando la conseguente estinzione dell’illecito amministrativo alla stessa contestato. È quanto affermato dalla sesta sezione della Corte di cassazione nella sentenza n. 25648 del 13 febbraio 2024 (depositata lo scorso 1° luglio), prendendo una netta posizione tra i due opposti orientamenti sviluppatisi sul tema. Nel caso di specie, la società in liquidazione imputata era stata condannata in primo grado nel 2020 dal Tribunale di Milano per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25 comma 3 D.lgs. 231/01, nonostante già dal 2017 fosse stata cancellata per deposito del bilancio finale di liquidazione. La Corte d’appello, dopo aver escluso la sussistenza di indici di fraudolenza nella cancellazione della società, ha ribaltato l’esito del primo grado, dichiarando non doversi procedere per avvenuta estinzione dell’illecito amministrativo determinata proprio dall’intervenuta cessazione della società, equiparando la cancellazione alla morte del reo ex art. 150 c.p. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Procuratore Generale, sostenendo, in primo luogo, che fosse stata erroneamente esclusa dai giudici di seconde cure la fraudolenza della cancellazione e, in secondo luogo, che, comunque, la decisione non avesse tenuto conto dell’art. 70 comma 2 D.lgs. 231/01 secondo il quale “la sentenza pronunciata nei confronti dell'ente originariamente responsabile ha comunque effetto anche nei confronti degli enti indicati nel comma 1", norma fino a quel punto applicata a tutti i casi nei quali la vicenda modificativa dell'ente sia rimasta ignota al giudice, come quello di specie, in cui il difensore aveva taciuto, sino all'ultima udienza l'intervenuta cancellazione della società, con ciò che ne consegue in termini di responsabilità per gli autori di detto atto, determinando l'insorgenza di un credito nei confronti dei soggetti indicati dall'art. 2495 c.c. in favore dello Stato. La questione dell’equiparazione tra cancellazione della società e morte del reo, con relativa cessazione di ogni rapporto processuale dipendente dall’illecito amministrativo, è stato oggetto negli anni di un vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale che ha visto contrapporsi due orientamenti. Il primo, al quale la Corte di appello di Milano ha aderito nel caso di specie, si fonda sul principio in base al quale qualora la cancellazione della società sia fisiologica e non invece fraudolenta (in quanto preordinata ad evitare proprio le conseguenze negative delle sanzioni applicabili in caso di condanna), l’estinzione della persona giuridica è equiparabile alla morte della persona fisica, da ciò conseguendo l’inibizione della progressione del processo nei suoi confronti e, dunque, la dichiarazione di estinzione dell’illecito amministrativo[1]. Il secondo e contrapposto orientamento, invece, sostiene che la cancellazione dell’ente dal registro delle imprese non possa determinare l’estinzione dell’illecito, in quanto non si tratta di un evento equiparabile alla morte del reo prevista dall’art. 150 c.p. Da ciò consegue che la responsabilità amministrativa dell’ente estinto non viene meno, ma si trasferisce in capo ai soci[2]. Tale posizione tende chiaramente ad evitare che la cancellazione “di comodo” della società possa paralizzare la risposta punitiva dell’ordinamento e, ancor prima, l’accertamento della responsabilità dell’ente. Gli argomenti su cui si fonda questo secondo orientamento sono stati così riepilogati dalla Corte nella sentenza in commento: Ebbene, la Cassazione chiamata a decidere sul caso in esame ha ritenuto non condivisibili tali argomentazioni, così non solo aderendo al primo degli orientamenti giurisprudenziali sopra citati, ma addirittura ampliando i limiti per l’applicabilità del regime di cui all’art. 150 c.p. al caso di cancellazione della persona giuridica, includendovi – per le ragioni che si andranno a esporre nel proseguo – anche le ipotesi di estinzione patologica e dunque fraudolenta dell’impresa. Il ragionamento dei giudici di legittimità prende le mosse dalla riforma delle società di capitali e cooperative avvenuta con il D.lgs. n. 6/2003, con cui la cancellazione ha assunto effetti costitutivi dell’estinzione irreversibile della società, ai sensi dell’art. 2495 co. 2 c.c., anche in presenza di debiti rimasti insoddisfatti e di rapporti non definiti. Dalla ratio di tale norma è possibile dedurre che la cancellazione dal registro delle imprese comporti il venir meno della persona giuridica e, conseguentemente, la possibilità di estendere nei suoi confronti, ai sensi dell’art. 35 D.lgs. 231/01, le disposizioni riguardanti l’imputato, generandosi così gli stessi effetti che derivano dalla morte del reo. Il diverso orientamento, secondo la Corte, non spiegherebbe infatti l’inutilità delle sanzioni sia interdittive che pecuniarie qualora vengano inflitte ad un soggetto estinto e dunque inesistente sotto il profilo civilistico. Non sarebbe infatti possibile perseguire le funzioni, rispettivamente, di favorire l’adeguamento al sistema normativo e di colpire la disponibilità economica dell’ente necessaria per la sua operatività nel mondo giuridico, nell’ipotesi in cui il soggetto destinatario delle sanzioni interdittive e pecuniarie sia ormai non più esistente. Non condividendo poi la tesi espressa dagli illustri colleghi che in precedenti pronunce hanno sostenuto di poter pretendere da terzi, quali soci e liquidatori, il pagamento delle sanzioni pecuniarie inflitte alla società cancellata, nella presente sentenza la Corte di cassazione ha affermato che tale soluzione si porrebbe in contrasto con il principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 della Costituzione. Alla luce di queste considerazioni, la Corte conclude affermando che “la sopravvivenza della società cancellata dal registro delle imprese ai soli effetti penali, da un lato, determinerebbe l’applicazione di sanzioni inattuabili, dall’altro finirebbe per gravare, in sede esecutiva, su soggetti terzi rispetto all’ente responsabile della violazione, persino con il pericolo della duplicazione di sanzioni a carico di questi, tanto da far retrocedere l’argomento della tassatività (o eccezionalità) delle cause estintive degli illeciti”. Infine, per quanto di interesse nel presente commento, la Corte di cassazione – andando oltre ai principi espressi nelle precedenti pronunce dalla giurisprudenza appartenente all’orientamento da questa condiviso – ha statuito che il meccanismo previsto dall’art. 2495 co. 2 c.c. ha portata generale, che perciò non ammette soluzioni differenti a seconda della natura fisiologica o, a contrario, patologica della cancellazione della società. Infatti, conclude, “è proprio la dissoluzione volontaria dell’ente, conseguenza della sua definitiva auto espulsione dal mercato a causa dell’utilizzo di pratiche corruttive, idonee a reggere alle dinamiche, a realizzare, in termini ancor più incisivi, gli obiettivi special-preventivi perseguiti dal D.lgs. 231 del 2001 con un sistema che compensa, attraverso l’eliminazione dall’universo giuridico degli enti che i sono retti su sistemi illeciti, la mancata applicazione delle sanzioni pecuniarie”. [1] Tale orientamento è stato espresso, tra le altre, dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 41082 del 2019, già commentata qui: https://www.osservatorio-231.it/2020/03/26/estinzione-non-fraudolenta-del-soggetto-giuridico-e-responsabilita-dellente/ [2] A questo secondo orientamento ha aderito, ad esempio, la cassazione con la sentenza n. 9006 del 2022, di cui si è già parlato qui: https://www.osservatorio-231.it/2022/03/18/lestinzione-della-societa-non-e-equiparabile-alla-morte-del-reo/