Cass. Pen., Sez. II, sentenza n. 40015/2024 La Corte di cassazione è recentemente tornata ad esprimersi in materia di indebita fruizione di crediti fiscali legati all’asserita realizzazione di opere edili, in realtà mai eseguite. Il caso riguarda una tematica di grande attualità relativa ai benefici fiscali (“bonus” e “superbonus”) concessi dal legislatore a partire dal 2020 con la finalità di rilanciare l’economia italiana dando una spinta, in particolare, al settore edilizio. Come noto, le lacune normative esistenti nella disciplina dei bonus edilizi e i limitati poteri di controllo preventivo conferiti all’Amministrazione finanziaria hanno agevolato la diffusione di pratiche illegali caratterizzate dall’utilizzo di documentazione contabile falsa, in quanto relativa a opere edilizie inesistenti o sovrastimate rispetto al loro valore effettivo, al fine di fruire indebitamente dei benefici fiscali. Nel caso oggetto della pronuncia in commento, gli indagati, attraverso l’emissione di false fatture attestanti l’esecuzione di lavori di ristrutturazione di facciate di immobili in realtà mai eseguiti, avrebbero ottenuto crediti fiscali a titolo di bonus ai sensi dell’art. 121 D.L. 34/2020. I crediti indebitamente ottenuti sarebbero stati poi ceduti ad una società, la quale avrebbe in cambio corrisposto ai cedenti un importo in denaro attraverso una serie di accrediti su conti correnti postali a questi ultimi riconducibili. Nei confronti degli indagati, ai quali viene contestato il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato ex art. 640 bis c.p., il G.i.p. del Tribunale di Prato aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari, confermata dal Tribunale del Riesame di Firenze. Avverso l’ordinanza del Tribunale della Libertà hanno proposto ricorso per cassazione i due indagati, adducendo – per quanto qui di interesse– l’errata qualificazione giuridica del fatto loro addebitato che, anziché rientrare nella più grave fattispecie di truffa, avrebbe dovuto sussumersi sotto l’art. 316 ter c.p., che disciplina il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche. Secondo i ricorrenti, infatti, poiché i bonus facciate, erano stati ottenuti in un momento antecedente all’entrata in vigore dell’art. 122 bis D.L. 34/2020 (che ha introdotto misure di contrasto alle frodi in materia di cessioni dei crediti, attraverso un rafforzamento dei controlli preventivi dell’Agenzia delle entrate), ne sarebbe conseguita l’automatica percezione dei crediti di imposta, senza preventivo controllo della documentazione consegnata da parte dell’Amministrazione finanziaria e, dunque, senza il verificarsi degli elementi tipici della truffa, quali gli artifizi e raggiri e l’induzione in errore. La Corte non ha però aderito a tale interpretazione, giungendo a confermare il principio, già espresso in passato, secondo cui “il riconoscimento del credito d’imposta previsto dalla legislazione in materia di bonus edilizi a seguito della trasmissione di false fatture attestanti l’esecuzione di opere in realtà mai effettuate integra una condotta riconducibile al parametro di cui all’art. 640 bis c.p. e non anche alla più lieve fattispecie dell’art. 316 ter c.p. posto che il riconoscimento del credito da parte dell’ente pubblico è avvenuto a seguito dell’induzione in errore dello stesso”. A parere della Corte, infatti, la semplice emissione di false fatture basterebbe per configurare gli artifizi e i raggiri e non sarebbe necessaria un’attività di controllo preventivo circa la spettanza del credito da parte dell’Agenzia delle entrate per potersi dire integrata l’induzione in errore tipica del reato di truffa. Per tale ragione, i fatti oggetto del procedimento sarebbero stati correttamente qualificati ai sensi dell’art. 640 bis c.p. anziché sussunti nella diversa fattispecie, meramente residuale, di indebita percezione di erogazioni pubbliche. In aggiunta alle argomentazioni sin qui rappresentate, i giudici di legittimità hanno altresì approfondito il tema del momento consumativo del reato di truffa, affermando che “essendosi in presenza di crediti per lavori inesistenti, ai fini del perfezionamento del reato e della sua consumazione, non occorre necessariamente individuare che l’ultimo cessionario porti in compensazione le somme con l’Agenzia delle entrate e ne ottenga la liquidazione, essendo sufficiente che anche la sola prima cessione abbia comportato il pagamento di somme non dovute al cessionario”. Sotto questo profilo, la Cassazione si è discostata da un opposto orientamento secondo il quale, invece, il reato di truffa ex art. 640 bis può dirsi consumato solo quando il danno per lo Stato si sia concretamente configurato e, a sua volta, il danno può dirsi effettivamente realizzato solo quando i crediti fiscali ceduti siano stati materialmente riscossi o compensati (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 23402/2024). Solo in tale eventualità, infatti, si verificherebbe la concreta perdita del denaro, siccome erogato a rimborso di un credito fittizio ovvero non incassato per effetto di compensazione con un credito fittizio. Prima del verificarsi del danno così inteso in capo allo Stato, aggiunge la giurisprudenza che aderisce a questo secondo orientamento, può sussistere esclusivamente il tentativo di reato di truffa ai danni dello Stato o, eventualmente, la truffa in danno dei cessionari. Merita, infine, evidenziare che anche in relazione all’altro tema trattato nella sentenza in commento – relativo all’integrazione del più grave reato di truffa ai danni dello Stato anziché di indebita percezione di erogazioni pubbliche – non vi è totale unanimità nelle pronunce dei giudici di merito e di legittimità. Infatti, benché i principi affermati dalla Corte nella sentenza 40015/2024 rappresentino l’orientamento principale e maggiormente diffuso, non mancano pronunce di senso contrario che, al ricorrere di elementi fattuali analoghi a quelli oggetto del presente procedimento, hanno ritenuto di qualificare ai sensi dell’art. 316 ter c.p. le condotte di indebito ottenimento di bonus edilizi (Cass. Pen. Sez. II, n. 37138/2023).